(di Patrizia Caiffa) – Conserve di pomodoro prodotte e vendute assumendo lavoratori con contratti regolari. Supportando le aziende agricole nella produzione. Coinvolgendo direttamente i consumatori nella filiera, trasparente e partecipata.
Per contrastare in maniera efficace e intelligente lo sfruttamento e il caporalato nelle regioni meridionali c’è chi ha ideato una nuova alleanza tra profit e no profit per proporre al mercato il pomodoro etico e sostenibile.
E’ il progetto Funky Tomato, che propone un modello alternativo, economico e culturale: è la prima filiera agroalimentare ad alto impatto culturale, che garantisce la dignità di tutti gli attori coinvolti.
Il nuovo “contratto di rete 2019” di questa comunità economica solidale, dopo una prima alleanza nel novembre 2018, è stato siglato la settimana scorsa a Roma, tra Funky Tomato, Cooperativa (R)esistenza, La Fiammante, Oxfam Italia, Storytelling Meridiano, Dol (Di origine laziale), AgroBio srl e Op Mediterraneo, che lancia ufficialmente la Campagna Preacquisto 2019.
Secondo le stime sono circa 400 mila i lavoratori a rischio caporalato in Italia e migliaia i braccianti a rischio di sfruttamento
impiegati nella raccolta del pomodoro, metà dei rapporti di lavoro lungo la filiera sarebbe illecita.
L’industria italiana del pomodoro rappresenta oltre il 12% della produzione mondiale e il 55% della produzione europea, coinvolgendo quasi 10 mila agricoltori e 120 aziende di trasformazione, per un giro di affari annuo compreso tra 1,4 e 2 miliardi di euro.
Ma dietro a questo business si cela spesso un meccanismo polarizzato di pochi grandi attori, tra industrie alimentari e attori della grande distribuzione, che dominano il mercato praticando politiche di prezzo al ribasso che hanno conseguenze drammatiche sulle condizioni di lavoro, la salute, l’ambiente e la sostenibilità economica di lungo periodo di un’intera filiera.
Dai piccoli contadini che non riescono a rientrare nei costi di produzione e molto spesso finiscono per chiudere la propria azienda agricola, alle migliaia di braccianti stranieri, per lo più originari dell’Africa sub-sahariana, che giungono nel meridione per cercare impiego nella raccolta del pomodoro e finiscono per vivere e lavorare al di fuori della legalità e della dignità.
Per reagire a questa situazione, e in seguito al dolore suscitato dalla morte di Paola Clemente, che lavorava nei campi per 2 euro all’ora, nel 2015 è stato avviato il progetto Funky Tomato, con 4 beneficiari e circa 90 quintali di prodotto trasformato.
Da allora i volumi di produzione sono aumentati di 55 volte arrivando nel 2018 a 5.000 quintali di prodotto finito, con il coinvolgimento di una trentina di lavoratori presi in carico dagli agricoltori della filiera, nel foggiano in Puglia, nel Parco del Pollino in Calabria e a Scampia in Campania.
“Ci siamo resi conto che tutti i fattori della filiera sono oggetto di sfruttamento, non solo i lavoratori. Coinvolgendo e tutelando la dignità di tutti siamo riusciti ad ottenere un prodotto ad un prezzo accessibile”
spiega Paolo Russo, di Funky Tomato.
Alla base di questo contratto c’è un disciplinare etico di produzione condiviso da tutti i soggetti (agricoltori, imprese, intermediari, lavoratori), “con una struttura circolare a rete che rende trasparente il prezzo e la filiera e aiuta i soggetti più deboli – precisa Guido De Togni, di Funky Tomato -. Crediamo che i problemi vadano affrontati a livello sistemico, non solo sindacale”.
Tra gli imprenditori che hanno aderito con entusiasmo al progetto c’è Marco Nicastro, di Op Mediterranea, azienda di pomodoro del foggiano, una delle zone a più alta criminalità d’Italia, con la triste media di un omicidio a settimana.
“Abbiamo aperto nel 1986 e tutto andava bene. Poi nel 2000 sono cambiate le dinamiche comunitarie, con un sistema di erogazioni ai produttori anziché alle industrie che ci ha penalizzato e schiacciato – racconta Nicastro -. La produzione è diminuita, finché non abbiamo deciso di costituire una cooperativa per affrontare il mercato e dare un prezzo equo. Oggi lavoriamo 500 ettari di pomodori l’anno ma siamo tutti vittime del sistema”.
Nell’azienda lavorano anche diversi ragazzi africani regolarmente assunti. Nicastro ricorda che “fino al 2000 esistevano gli uffici di collocamento dove trovare la manodopera, oggi non ci sono più. Per questo il caporalato e lo sfruttamento hanno la meglio”.
Tra i partner dell’alleanza c’è anche (R)esistenza anticamorra di Scampia, realtà no profit nata dopo la faida camorristica del 2008.
“Ci dicevano che per salvarci dovevamo andare via da Scampia – dice Ciro Corona -. Siamo riusciti a non scappare e oggi lavoriamo per far studiare i figli dei detenuti camorristi e creare opportunità lavorative. I genitorio ggi ci scrivono dicendo: ‘tenete i nostri figli con voi, non gli fate fare la nostra vita’”.
In un terreno di 14 ettari all’interno di un bene confiscato alla camorra vicino alla Reggia di Capodimonte oggi lavorano 11 ex detenuti “che scelgono di cambiare vita” (ne sono passati 64 nel 2018). Producono pomodori e vino.