Ah gli splendidi anni ’60, quando la gente era felice, sorrideva, lavorava, cantava. C’era una Italia canterina, un po’ volava nel blu, un po’ voleva ventiquattromila baci, altre volte metteva dei fiori nei cannoni o addirittura – addirittura eh! – andava a prendere il latte.
Era una Italia dove c’era un bestiario fantastico che gorgheggiava garrulo e sensuale sulle note della gaiezza del boom economico, volando per teatri e balere, correndo per paesi e città e ruggendo successi dopo successi: c’era l’Aquila di Ligonchio, c’era la Tigre di Cremona, c’era il Pulcino di Gabbro, c’era la Cerbiatta di Ravarino, c’era la Civetta di Venezia, c’era l’Usignolo di Cavriago, c’era la Gazzella di Cagliari, c’era la Zanzara di Torino e c’era lei, la più nobile e feroce creatura, tanto bella quanto letale, la Pantera di Goro.
Goro, nome lontano di terre mitiche, sarà forse un paese esotico, questo Goro? Già, perché Goro c’è anche in Kenya vero? Ah no, quello è ‘Ngoro ‘Ngoro, la grande riserva naturale, lì è pieno di gnu, di leoni, di zebre, di rinoceronti neri, di fenicotteri, ma niente Pantere di Goro, invece è pienopienopieno ma pienopieno di sciacalli e iene.
Allora potrebbe essere Goro del dipartimento di Borgou nel Benin, ma non ci sono molte Pantere neanche lì. Aspetta aspetta, c’è anche un luogo sacro per i Rastafariani, si chiama Goro, nel centro dell’altopiano etiopico, e c’è nato Tafarì Maconnèn, il futuro imperatore Hailé Selassié: no, non ci siamo, c’è qualche cosa che non torna.
Questi son tutti luoghi di neri, i neri non cantavano in Italia negli anni Sessanta. I neri puzzano, hanno le malattie, rubano il lavoro, mangiano i bambini come i comunisti di una volta, li vendono, le donne fanno tanti figli, e poi i neri amano le crociere, non cantano, forse ogni tanto bevono molta acqua di mare perché la loro lussuosa nave si rovescia mentre cercano di raggiungere l’Italia per organizzare un nuovo Cantagiro che tocchi le più amene località turistiche del Belpaese.
Ma allora? Suvvia, tranquilli, amabili lettori e appassionati b-hoppers, chi sarà mai la Pantera di Goro se non lei la rossa focosa dalla voce carnale e suadente, dai toni gravi e potenti, lei, la divina Milva!
Oh, qual giubilo e diletto vedere come un soprannome la renda così vicina a quei popoli che del canto hanno fatto una forza di vita, una prece al divino: la Pantera, nera come i popoli del Kenya, del Benin, dell’Etiopia, nera come la notte ammaliante sotto le stelle dei deserti africani, con le note calde e seducenti della voce di Milva.
Milva, che di Goro ha i natali, Goro, sperduta tra le valli del Delta del Po, tra una alluvione ed un’altra, tra sciami di zanzare e banchi di nebbia, che tanto ha ricevuto dal nome della sua figlia più famosa, Milva di Goro.
Nera la Pantera come nero è il cielo oggi su Goro: le schiere angeliche si sono presentate nelle sembianze di 12 donne, di cui una incinta. Neri come la Pantera di Goro che fama e ricchezza ha portato a quel luogo dimenticato da tutti, puntino insignificante delle carte geografiche di una Italia che ogni tanto decide di non cantare più, di non volare più, ma di gridare sguaiatamente proprio come quegli sciacalli e quelle iene del grande parco di ‘Ngoro ‘Ngoro, che si azzuffano per un brandello marcio di un cadavere, unico sostentamento delle loro squallide e ripetitive vite.
In una epoca di mutazioni genetiche è triste vedere come la Pantera di Goro non ci sia più, vive, ma ormai è sola, sperduta e disillusa, neanche più ricordata per le sue canzoni.
Oggi a Goro vivono sciacalli e iene: sì proprio quelle iene ridens che festeggiano in un sabba di vino cotto e cozze marinate, davanti a un mucchio di pelle ed ossa, neri scacciati, umiliati, rifiutati.
Forse non c’era molto da mangiare con quei poveri corpi martoriati e straziati nello spirito. Ma le risate e le danze delle iene di Goro fanno piangere, e nulla cancella la protervia della viltà, del cuore piccolo e stretto, della “roba” come unico credo: mentre le parole di una vecchia canzone di Milva si spargono nell’aria
“Cammina cammina cammina
mio fratello non trova lavoro
per quanto cerchi per quanto si affanni
se mi pagassero a peso d’oro
non vorrei esserci nei suoi panni
mio fratello non trova lavoro
nemmeno a farci un fioretto in chiesa
che dan consigli accidenti a loro
ma non ti aiutano a far la spesa
mio fratello non trova lavoro”.
Questa è la storia di Milva da Goro detta la Pantera, che cantava il lavoro della filanda, che cantava la disperazione dei giovani emigrati, che cantava le canzoni dei perseguitati politici.
Oggi da Goro escono solo latrati e risate di sciacalli e iene.
Oggi quelle donne e bambini neri come la Pantera non sono a Goro, ma dormono e sperano di poter vedere il sole che li illumina in altri paesi e città, senza paura di morir di fame, o affogati o venduti come schiavi, accolti con poco, alla faccia delle iene di Goro, e di chi gioisce con loro.
C’è una Italia che vuol continuare a cantare, ballare, a sognare, senza barriere e colori di pelle, dove una mano data è guadagnata, una mano rifiutata è persa.
Forse la Pantera di Goro un giorno deciderà di riprendere anche una sola volta a cantare nei teatri, magari cantando proprio per quelle donne e quei bambini scacciati dal suo paesello natìo.
Forse basterebbe tenere sempre le porte aperte per far circolare l’aria e ripulire l’odore di stantìo delle case che hanno sempre le porte e le finestre chiuse.