Mehret Tewolde è nata in Eritrea e vive a Roma da 40 anni. E’ una donna affermata, con grande esperienza in campo finanziario, ora dirigente presso Italia Africa Business Week. E’ arrivata in Italia da ragazzina, dopo che la madre Hiwet, rimasta vedova, è stata costretta a lasciare Asmara a causa del conflitto con l’Etiopia, nel 1974. Una ragazzina che ha avuto la fortuna di vivere per cinque lunghi anni a casa di un grande maestro: Eduardo De Filippo.
Oggi Mehret ricorda “un uomo straordinario che mi fece, nel breve periodo che vissi con lui, da padre, da nonno, da mentore, imparai a rispettare me stessa e pretendere che gli altri mi rispettassero”. La sua testimonianza in prima persona è raccolta da Voci di confine, una campagna per proporre una narrazione positiva delle migrazioni, promossa da 16 organizzazioni, capofila Amref Health Africa Onlus.

Nel 1979, quando Eduardo ha quasi 80 anni ma continua a calcare le scene, un’amica propone ad Hiwet di andare a lavorare a casa De Filippo come collaboratrice familiare. Si fa accompagnare dalla figlia Mehret, una ragazzina timidissima ma molto bella.
Appena la vede Eduardo resta incantato. Le sorride, le tende la mano e cerca di metterla a proprio agio. Mentre Hiwet è dubbiosa se accettare o meno la proposta di lavoro perché la casa è molto grande, Mehret non ha dubbi: avrebbe fatto qualsiasi cosa per convincere la madre ad accettare, era affascinata da quella figura così carismatica e dal mondo del teatro.
Hiwet accetta, e insieme alla figlia vivranno cinque fantastici anni a casa De Filippo.
“Era un grande uomo di cultura, uno dei più grandi del Novecento italiano, con un’umanità e semplicità uniche – racconta Mehret -. Ricordo la reazione di Eduardo quando alcuni ospiti arrivavano a casa e, sorpresi di vedere mia mamma, dicevano: «Ah! Eduardo ti sei messo una negra in casa?». Urlava ed invitava l’ospite a lasciare casa sua se aveva di ‘quei problemi’ aggiungendo che Hiwet, mia mamma, ‘è un membro della mia famiglia’”.
E quando l’ospite, spaventato, chiedeva scusa, lui replicava dicendo: “Le scuse le devi porgere a lei perché è a lei che hai mancato di rispetto”. E non importava se l’ospite fosse un ministro o il fattore della casa in campagna.
Eduardo riconosce dunque Hiwet e Mehret “come esseri umani, gli dà una casa, la mia prima casa – non ne ricordo altre”, ne difende la dignità e pretende rispetto per loro da chiunque.
“Ecco come il rispetto è diventato un must, un valore fortissimo per me“, sottolinea oggi Mehret.
In particolare, Eduardo fu il primo ad aiutarla a coltivare “l’autostima e la determinazione nel perseguire i miei obiettivi – prosegue – E, senza saperlo, a plasmare me stessa scegliendo ciò che era più funzionale alla mia persona ed ai miei progetti, attingendo da ambo le mie culture e rispettandole entrambe”.
Mehret porta un esempio semplice su cosa significa il rispetto di entrambe le culture: “Se mi offriste il pollo arrosto, lo mangerei con le posate. Offritemi un piatto di dorho, il pollo cucinato all’eritrea, guai ad usare le posate e raramente permetto agli ospiti di usarle durante un pasto eritreo”.
A casa De Filippo la giovanissima Mehret, appena adolescente, trova la sua via di accesso alla cultura italiana, sentendosi rispettate nelle scelte, con i suoi tempi e le sue modalità. “E’ grazie a quel sistema – precisa – che ho appreso a valutare le persone in base a ciò che sono e non a ciò che appaiono, ad essere più aperta e a mostrare piuttosto che dimostrare o cadere nella trappola dell’auto commiserazione o, ancor peggio, della contrapposizione noi-loro“.
La sua identità, spiega oggi a distanza di tanti anni, “non è solo eritrea e nemmeno solo italiana ma è una identità nuovo e molto più ricca delle due prese singolarmente”.
“Non è stato facile – precisa – è un processo doloroso. Ricordo le discussioni con mia madre fino a notte fonda e i pianti di entrambe ma era una sofferenza necessaria alla costruzione, alla maturità al mio accesso in modalità protetta al sistema”.
Sulla base della sua esperienza in prima persona oggi invita a “coinvolgere tutti, ascoltare, valutare gli impatti, rassicurare chi ha paura, creare un sistema del welfare che tuteli tutti mentre oggi abbiamo gettato le basi per nuove forme di schiavitù che alimentano e scatenano le guerre tra poveri”.
E a “diversificare l’approccio in base alle fasce di età“: “Eduardo aveva due approcci diversi nell’interagire con me e mia mamma. Su di me ha lavorato in modo che non marchiassi gli italiani e l’Italia come razzisti anche quando, davanti a lui, lo stato italiano ebbe un atteggiamento riconducibile alla discriminazione. Il torto lo fecero a me e mia mamma; tornando a casa, prima di scendere dal taxi, Eduardo mi disse: «Mehret, ti chiedo scusa per il mio popolo».
Tutti questi dettagli, conclude, “mi hanno permesso di sentirmi diversa ma come tutti, perché, che ci piaccia o no, siamo tutti diversi, persino i gemelli. Ed è questa consapevolezza che mi ha permesso di vedere negli atteggiamenti discriminatori una bella sfida, uno stimolo in più, una carica per cercare nuove risorse o attingere semplicemente a quelle vecchie”.