di Patrizia Caiffa – Premessa: non sono esperta di Afghanistan (perché non ci sono mai stata) ma leggo con grande attenzione le spiegazioni degli inviati per cercare di capire. Tuttavia conosco sufficientemente bene tanti altri Paesi meno noti del mondo (perché ci sono stata). Evito di entrare nel merito ma sono rimasta molto colpita dalle forti reazioni emotive e dagli improvvisi slanci di generosità seguiti alle vicende di questi giorni, con la caduta di Kabul e del resto del Paese nelle mani dei talebani.
E’ indubbio che le immagini televisive e fotografiche dell’esodo all’aeroporto sono spettacolari, storiche e scioccanti. Come pure le tante testimonianze delle donne e delle persone che hanno collaborato con gli occidentali: traumatiche e commoventi.
Mi colpisce però come – quasi per miracolo – tutti si stiano mobilitando per chiedere – giustamente – corridoi umanitari per le donne afgane (dovremmo svuotare mezzo Paese?!) e per chi è in situazione di vulnerabilità dopo il repentino cambio di potere ai vertici.
Sembra quasi che ci stiamo accorgendo solo ora che esiste l’Afghanistan, dopo 20 anni di guerre “umanitarie” o guerre “giuste” per “esportare la democrazia”. Mentre gli Usa se ne lavano le mani dopo aver gestito comodamente i propri interessi geopolitici e strategici (e fallito nell’impresa), incapaci anche di ammettere le proprie responsabilità. E noi i soliti amichetti complici.
Una storia che abbiamo già visto in tante altre crisi, un dejà vu.
Una sorta di ipocrisia politically correct che si accende solo davanti a colpi di scena, emozioni e immagini forti mentre la maggior parte di chi si scandalizza in queste ore sui social, a malapena sa dove sia l’Afghanistan.
Ma gli stessi indignati dell’ultim’ora lo sanno che da anni l’Europa e l’Italia continuano a respingere gli afgani alle frontiere?
Soprattutto sulla rotta balcanica e al confine bosniaco, dove giovani disperati, dopo aver passato atroci inverni al gelo nel campo di Lipa tentano il dannato “game” per entrare in Europa illegalmente, perché nessuno avrebbe mai dato loro, nelle ambasciate occidentali a Kabul, un visto per arrivare comodamente in aereo, come potrebbe accadere ora.
Lo sanno che gli stessi afgani (ma anche pakistani, siriani, bangladesi, africani sub-sahariani), a quelle frontiere, vengono sistematicamente picchiati dalle forze dell’ordine, perfino i minorenni?
Però no, per la farraginosa burocrazia delle richieste d’asilo che decidono sulla base delle nazionalità di provenienza, gli afgani fino a poco tempo fa non scappavano da un conflitto, per cui era sempre più difficile per loro riuscire ad accedere a qualche forma di protezione internazionale.
Perché ovviamente l’Afghanistan, con gli americani, era un Eden pacificato, nessun attentato, nessuna bomba, nessuna nefandezza da parte delle forze amiche, la popolazione fruiva abbondantemente delle proprie risorse (si capisce l’ironia?). E invece ora arriva l’orrore fondamentalista che non incontra resistenza né da parte dell’esercito, né dalla popolazione. Il minimo sarebbe chiedersi perché. Io una risposta la sto ancora cercando.
Ed è certo orribile quanto sta accadendo ma la sofferenza di questo popolo – e di tanti altri che ignoriamo deliberatamente – non è comparsa all’improvviso. Non sappiamo ancora dove li porterà la storia, quali intese internazionali ci siano dietro, e comunque spetta ad ogni popolo provare ad autodeterminarsi per cercare il proprio modello di democrazia e diritti. Togliamoci dalla testa che siamo noi i salvatori.
Trovo veramente riduttivo decidere chi dobbiamo salvare o far morire sulla base dei nostri limitati orizzonti eurocentrici o della scarica adrenalinica collettiva provocata dalle immagini choc televisive del momento e dalle situazioni geopolitiche funzionali all’Occidente.
A parte le organizzazioni che già operano sul campo da anni e non fanno certo distinzioni mi chiedo se tutti quelli che si stanno mobilitando in queste ore per far venire in Italia – giustamente – donne e attivisti afgani (non sia mai i maschi, potenziali “terroristi”) metterebbero la stessa energia e disponibilità all’aiuto e all’accoglienza delle vittime dei conflitti nella R.D. Congo, dello Yemen, del Sud Sudan, della Repubblica Centrafricana, della violenza jihadista in Mozambico, Burkina Faso, Niger e Nigeria, dei terremotati ad Haiti, dei perseguitati in Myanmar... La lista sarebbe sempre troppo lunga e non esauriente.
O semplicemente nei confronti di coloro a cui ogni volta cerchiamo di negare porti sicuri a poche miglia dalle nostre coste o che respingiamo nell’orrore libico, tra i quali, ricordiamolo ancora, ci sono da anni anche tanti afgani e siriani. Ma oramai i ritornelli pragmatici dei distinguo li conosciamo anche troppo bene. E sinceramente, annoiano.
E qui cito la collega Maria Ilaria De Bonis, che ha incalzato questo mio insolito scritto: “Improvvisamente diventiamo esperti di diritto, ci indigniamo per le donne (solo per alcune di esse, però e solo quando la loro sofferenza coincide con l’idea islamofobica che ci siamo fatti noi), postiamo tutti le stesse foto, ci limitiamo ad una tardiva indignazione. Ma non studiamo mai per tempo, non capiamo mai al momento giusto, non ci opponiamo alle politiche insensate di chi (come gli Stati Uniti) adotta sempre lo stesso metodo”.
Certo che è necessario indignarsi. Ma bisogna informarsi con continuità sulle tante crisi aperte nel mondo e non solo quelle narrate saltuariamente dal mainstream. E fare qualcosa di serio, responsabile e lungimirante sul fronte migrazioni e politica estera.
Non solo promesse e patti firmati e non mantenuti. Servono volontà politica e azioni concrete.
Non possiamo continuare ad usare due pesi e due misure a seconda dei popoli e delle situazioni, come e quando ci fa comodo, trascurando diritti universali come quello di chiedere asilo quando si rischia la vita perché nel proprio Paese si muore: di guerra, terrorismo o fame che sia.
E’ così difficile imparare la lezione?