Se oramai siete abituati ad incontrare le tonache zafferano e bordeaux dei monaci, le donne con la thanaka sul viso e gli uomini con i longyi, vuol dire che siete già entrati nella cultura di questo paese meraviglioso, la Birmania (Myanmar) e pronti per proseguire la prossima tappa di questo viaggio di 18 giorni nei luoghi più noti e suggestivi. Dopo avervi raccontato Yangon, Mandalay e dintorni, stavolta arriveremo nella magica piana dei templi di Bagan con una bellissima discesa in battello sul fiume Irrawaddy.

Vi sveglierete con fatica poco prima dell’alba al canto dei gechi in una guest house di Mandalay, ma la levataccia sarà ripagata da un sole giallo che si alzerà splendido appena saliti sul battello, che scorrerà lento insieme al fiume Irrawaddy (Ayayarwady in birmano), per tutta la giornata. Ci sarà chi prende il sole, chi dorme, chi legge, chi fa foto. Vi consiglio di sedervi all’aperto e assaporare ogni momento di questo viaggio placido e rilassato, di godere a pieni polmoni del vento, degli uccelli, della vita dei villaggi che ruberete al passaggio. Forse un pò rumoroso e fumoso a causa dei motori e dei gas di scarico, ma tipicamente asiatico nei ritmi e nelle modalità. Le acque verdastre del fiume rimandano le nostre ombre.

Ogni tanto si incontrano chiatte che trasportano grandi otri, montagne di carbone puzzolente o altre merci, piccole barche di pescatori. I ragazzi del battello ogni tanto scandagliano i fondali con un lungo bastone, altri cucinano riso fritto e noodle che serviranno a pranzo. Accompagnate il viaggio con l’interessante lettura di “Giorni in Birmania” di George Orwell per capire tanti particolari del colonialismo inglese.

Si arriva a Bagan nel pieno del pomeriggio e già i primi pinnacoli di templi che si scorgono dal fiume fanno intravedere la suggestione unica di questo luogo patrimonio dell’umanità. Una vasta ed enorme pianura arida di circa 4000 templi, finora ne sono stati scoperti 3.300. Un tempo era un regno fastoso, con una grande città e palazzi in legno, che oggi non ci sono più. Sono rimasti templi e tempietti (chiamati “zedi”). L’Unesco ha messo a disposizione un milione di euro per i restauri, la giunta militare ha raccolto altri soldi con una colletta popolare e ne ha restaurati alcuni, anche se in stile un pò disneyano. Comunque, a parte due brutti hotel a forma di pagoda che rovinano il paesaggio, il resto è tutto sommato intatto.
Si può bighellonare a piacere in bicicletta o con i motorini per due o tre giorni, su strade sabbiose a volte simili a piste nel deserto, cercando di evitare i torpedoni del turismo di massa nei templi più famosi. Che possono sembrare simili invece sono tutti diversi, e lasciano scoprire mistiche statue di Buddha e affreschi sulle pareti. Ognuno ha una storia da raccontare, una leggenda nascosta.
Storie e leggende dei templi. C’è l’Anandapahto con quattro grandi statue in teak, uno di questi un Buddha sembra triste se visto da una prospettiva, ma riprende il suo sorriso dall’altro lato. O lo Schwezigon paya, tutto d’oro, molto bello. In una casina gialla difficile da rintracciare conserva, quasi nel segreto, le offerte del popolo davanti alle statue di 37 nat, le divinità animiste che venivano venerate (lo sono tuttora in alcuni strati della popolazione) prima di essere soppiantate dal Buddhismo theravada. O anche il Dhammayangyi phato, fatto costruire da re Narathu nel XII secolo per espiare i suoi peccati: aveva infatti ucciso padre, fratello e una delle mogli, “colpevole” di praticare riti indù. Si narra che il feroce re pretendesse dai manovali che i mattoni a secco combaciassero alla perfezione, tanto da non poter passare nemmeno uno spillo, pena l’amputazione del braccio. All’ingresso ci sono due incavi dove pare avvenissero le macabri punizioni. Dopo la sua morte, per ritorsione contro il sovrano tanto odiato, la popolazione riempì il tempio di detriti di mattoni.

Il cult turistico è salire sulla cima di uno dei templi più grandi e meglio orientati per regalarsi uno spettacolo del tramonto da fine ‘800, con mandrie di mucche e pastori che sollevano la polvere; una foto da cartolina talmente perfetta da non sembrare vera. Peccato che a volte il turismo, anche locale, improvvisa chiassose feste o diventa fastidioso, tanto che a marzo 2016 il governo ha diffuso un provvedimento con il divieto di salire sui templi più famosi.
Per una gita autentica di un giorno nei dintorni vi consigliamo l’atmosfera mistica e incontaminata di Salay, dove incontrerete la vita vera dei monaci adulti e bambini. Qui ne vivono circa 4.000. Se siete fortunati, nel monastero medievale in legno con intarsi bellissimi, uno dei più anziani vi aprirà perfino le porte della sua povera casa e vi farà vedere foto e cimeli veramente ottocenteschi. Per poi divertirvi a ridere e scherzare con i monaci bambini che girano con le ciotole dell’elemosina.

Lasciate Bagan con un viaggio confortevole in bus. Prossime e ultime tappe: lago Inle e Ngapali beach.
Leggi anche: Viaggio in Birmania, il paese delle pagode d’oro e dei sorrisi felici: Yangon (1)
Viaggio in Birmania, il paese delle pagode d’oro e dei sorrisi felici: Mandalay e dintorni (2)
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