La seconda tappa di questo meraviglioso itinerario di 18 giorni iniziato a Yangon, tocca la Birmania (Myanmar) centrale, con Mandalay e le splendite località dei dintorni. Per chi viaggerà con spirito di avventura e libri al seguito, questa è la terra del “Palazzo degli specchi”, il libro dello scrittore indiano Amitav Ghosh che ha sullo sfondo la conquista della Birmania da parte dell’esercito inglese nel 1887. Il Palazzo degli specchi, andato distrutto e poi ricostruito, era proprio la residenza dell’ultimo re di Birmania, il re Thibaw e la sua numerosa famiglia, costretti all’esilio nel Sud dell’India dal governo britannico.
Una visita alla città può iniziare proprio da questo palazzo, oggi chiamato Mandalay royal palace, circondato da un chilometrico fossato che impone lunghe camminate, con zone off limits perché occupate dall’esercito. Di originario c’è poco, se non qualche cimelio e foto del re Thibaw e seguito, ma il palazzo reale e le casette in tek della corte rendono un pò l’idea di come poteva essere fastoso all’epoca.
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Come in ogni luogo religioso della Birmania, preparatevi a togliere scarpe e calzini e ad iniziare le visite ai numerosi e affascinanti monasteri e templi che d’ora in poi incontrerete. I piedi nudi obbligatoriamente richiesti (in altri Paesi come India e Thailandia sono concessi i calzini) sono forse legati alla storia birmana. Un episodio in particolare, viene evocato dalle guide: nel 1919 alcuni turisti si rifiutarono di togliere i calzini e il governo punì, al loro posto, quattro monaci. Finirono in carcere, uno di loro venne addirittura condannato all’ergastolo. Ancora oggi sui giornali locali qualche opinionista discute sulla mancanza di rispetto dei turisti occidentali nei luoghi sacri, proponendo l’annosa diatriba sul turismo che porta sì denaro e sviluppo ma rischiando di distruggere le culture.
La prima tappa è il veneratissimo Mahamuni Paya, un enorme Buddha seduto la cui circonferenza si amplia e deforma sempre di più perché gli vengono incollate, come gesto di offerta e preghiera, delle foglie d’oro. Attenzione però: solo gli uomini possono compiere questo gesto devozionale, nessuna donna vi si può avvicinare. Al massimo ci si può inginocchiare su un tappeto di fronte con le mani giunte e rivolgersi al noto Buddha guardandolo da un maxi-schermo. Sempre nel tempio, un’altra pratica dei fedeli è quella di toccare la testa, gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe di grandi statue in bronzo rubate alla mitica città di Angkor, in Cambogia, e di ripetere immediatamente il gesto su di sé, per favorire la buona salute.
Altro monastero è lo Shwe in Bin Kyaung, non particolarmente attraente se non per la struttura in legno e l’atmosfera rarefatta dovuta alla presenza di pochi turisti.
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Tra un tempio e l’altro, c’è la possibilità di visitare gli artigiani al lavoro. La città è infatti famosa per l’arte orafa, dell’intaglio del legno e del marmo, della tessitura a telaio della seta e degli arazzi. Impressionante è lo stremante e al tempo stesso meticoloso lavoro della produzione delle foglie d’oro: tre ragazzi molto giovani e molto in forze picchiano per ore, con enormi mazze, su lamine d’oro per farle diventare sempre più sottili. Una fatica disumana e uno sforzo pazzesco per la schiena e le gambe ma il movimento ritmico assunto dai lavoratori e il rumore martellante a tempo assume quasi i tratti di una dolorosa meditazione. Alle donne spetta il lavoro di precisione, assai monotono: dividere le foglie e incollarle su fogli di carta trasparente, pronte per essere vendute.
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I dintorni di Mandalay
Ma sono le località dei dintorni ad esercitare il maggior fascino. Se ne possono visitare anche quattro o cinque (ma c’è chi le divide su due giorni) affittando per tutto il giorno un taxi con autista per una cifra intorno ai 55 mila kyat (circa 40 euro).
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La prima tappa è Sagaing, un monastero su una collina con una bellissima atmosfera, anche perché non invaso dal turismo di massa. Colpisce un lungo tunnel verde con migliaia di specchietti alle pareti e tantissime statue di Buddha infilate in successione come perle di un rosario, tra rondini che volteggiano festose. Accanto a questo monastero ce n’è un altro con bei pavimenti di piastrelle con colori pastello e vista sul fiume Irrawaddy (che in Birmania chiamano Ayayarwadi)
Si procede poi verso Mingun, una enorme pagoda di mattoni rossi rimasta incompiuta perché distrutta dal terremoto. All’onnipresente Buddha si offrono corone di gelsomini bianchi, poi si visita una gigantesca campana in bronzo che si può suonare o entrarci dentro per sentire il magico effetto delle vibrazioni. A piedi, poco più avanti, c’è un suggestivo tempio completamente bianco, con i pavimenti di marmo che sono un fresco sollievo per i già provati piedi.

Si riprende l’auto e poi, con un singolare traghetto, si effettua una minitraversata del fiume Irrawaddy per raggiungere la suggestiva Inwa, antica capitale birmana, in pratica una piccola isola con rarissime macchine e motorini. Qui il mezzo di locomozione obbligatorio per i turisti è il calesse con cavalli. Decine di calessi sono in costante attesa al molo per procacciarsi i clienti.

Alla guida del carretto birmano (anziché siciliano) può capitarvi anche una gentile donzella abbellita dalla tradizionale thanakha, la crema che usano spalmare le donne sul viso per proteggere la pelle e come make-up. Tra frustino e ordini al cavallo come schiocchi di baci vi guiderà tra distese di cavolfiori, piantagioni di banane e risaie in suggestivi monasteri abbandonati, tra fiori arancio che cadono dall’alto, statue di Buddha che compaiono all’improvviso e costruzioni come scatole cinesi.

Tra tutti il pezzo forte è un grande monastero in legno di tek, antichissimo. Ai turisti fortunati all’improvviso si svela, da una finestrella aperta, un poetico momento di vita quotidiana: un monaco insegna ai bambini, che ripetono la lezione cantilenando a memoria. Di fronte un anziano, seduto tra pile di carta e libri vecchi come fosse un Buddha in carne ed ossa, contempla placido il lavoro dell’aula.

La gita si concluderà al tramonto, nella bellezza dell’U’Bein’s Bridge, il ponte pedonale di legno più lungo del mondo, un luogo magico se non fosse per l’assalto di torpedoni carichi di turisti asiatici. Pare infatti sia uno dei posti più fotografati della Birmania. Le barchette colorate sul fiume, i venditori di frittelle e insalate di frutta, i suonatori, i pittori, rendono la passeggiata sul ponte un momento unico.

La poesia è assoluta quando sulle acque si vedrà scivolare lente centinaia di papere in formazione, guidati da un “pastore” che le segue ligio su una barchetta, richiamando all’ordine le fuggitive. Disegnano triangoli, nuvole, foglie, in una nostalgica (e perduta) atmosfera d’altri tempi.
Il sole scenderà sorseggiando una birra o un cocco. Se siete arrivati fino a qui sarete d’accordo che non esiste esperienza più bella al mondo del viaggiare.
Prossimo appuntamento: da Mandalay a Bagan in traghetto sul fiume Irrawaddy.
Leggi anche:
– Yangon
– i mille templi di Bagan
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