“Abbiamo imparato nell’abbandono delle celle di isolamento, in tutti questi anni, che si può essere felici con poco, e che se non ci riesci così, non ci riuscirai mai. Abbiamo imparato senza libri, una maniera di guardare le cose un po’ panteista se volete; ci piacevano i ragni, le formiche, perché erano l’unica cosa viva che avevamo nella solitudine delle nostre celle. Apparteniamo alla natura e siamo con lei”. Così parlava a 49 anni, nel 1985, ad una folla enorme di giovani e militanti uruguayani, il guerrigliero dei Tupamaros Pepe Mújica, appena uscito da una detenzione durata circa 15 anni (sommando quattro arresti), ostaggio della dittatura.
In quelle parole era già contenuto il senso profondo della vita di quest’uomo umile dallo sguardo buono, provato dal carcere più duro e lunghi anni in isolamento totale in una cella minuscola, dopo aver subìto, insieme agli altri compagni, torture, abusi e umiliazioni e aver realizzato fughe avventurose. Forse in quel momento non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato, dopo circa cinque lustri, presidente dell’Uruguay, tra i capi di Stato più noti e popolari al mondo proprio per la sua filosofia esistenziale contro il materialismo e il consumismo: il presidente più povero del mondo, che dà in beneficenza il 90% del suo stipendio, vive con la compagna Lucia Topolanski in una semplice casa di campagna anziché nella lussuosa residenza presidenziale, e insieme coltivano la terra e amano le cose semplici.
E’ il “presidente impossibile” che raccontano, nella prima biografia italiana, Nadia Angelucci e Gianni Tarquini (Il presidente impossibile. Pepe Mújica, da guerrigliero a capo di stato, Nova Delphi Libri, pp. 224, € 12,50), un saggio approfondito, documentato e scorrevole come un romanzo,una biografia accurata e una conoscenza diretta ed approfondita dell’Uruguay, con una intervista finale alla compagna di vita di Mujica, l’attuale presidente del Senato Lucia Topolanski. Unica assenza palpabile – che immaginiamo dovuta ad una sfortunata mancata disponibilità da parte dell’interlocutore – l’intervista al protagonista.
Il volume si presta a diversi piani di lettura, a seconda di cosa si voglia cogliere di questo singolare personaggio: c’è l’aspetto umano ed esistenziale che parla agli uomini e alle donne di oggi in cerca di alternative ad un modello di società oramai in crisi; c’è la storia degli anni orribili della dittatura in Uruguay e in America Latina, con il Plan Condor appoggiato dagli Stati Uniti d’America; c’è una valutazione intellettualmente onesta sulle conquiste politiche e i limiti della presidenza e del governo della coalizione politica a cui appartiene, il Frente Amplio; ci sono i retroscena sulle utopie, le vittorie, le sconfitte, gli errori del Movimento di liberazione nazionale uruguayano-Tupamaros, che si ispirava a Tupac Amaru II, l’ultimo sovrano inca giustiziato a Cuzco nel 1781 dopo aver organizzato la più imponente rivolta indigena contro gli spagnoli e disse: “Domani tornerò e sarò milioni”.
Una lotta armata quasi alla Robin Hood, se il paragone non fosse banale, che cercava di riportare giustizia ed uguaglianza in una situazione politica e culturale diversa dagli altri Paesi latino-americani che hanno vissuto quegli anni orribili: una dittatura che reprimeva, umiliava e torturava ma che, in fondo in fondo, non riusciva a disprezzare la vita come i militari argentini o cileni. Tanto che si ostinava a tenere i rehenas (gli ostaggi, uomini e donne) ancora in vita nelle carceri, perché la punizione massima, per questi reietti, sarebbe stata la follia.
E anche se molti guerriglieri non ce l’hanno fatta o sono stati uccisi durante la lotta armata (che nella fase finale, nonostante il forte appoggio popolare, ha fatto molti errori tattici), la sopravvivenza in cattività e il successivo riscatto di questi rehenas, e di Pepe Mújica in primo luogo, è un esempio di come, anche nelle situazioni più oscure, l’uomo abbia delle risorse inaspettate e illimitate per tornare alla vita sognata.
Al di là delle valutazioni storiche sulla lotta armata e sulle provocatorie misure politiche di Mujica – la legalizzazione della marijuana, dell’aborto, delle unioni gay e lo scendere a patti con le imprese capitalistiche – che hanno suscitato entusiasmi o critiche feroci, è questa la traccia che più ci ha colpito di questo libro.
Un forte messaggio di libertà, speranza e cambiamento, un uomo ostinato e schietto (a volte anche troppo, viste le sue numerose gaffe per nulla politically correct) che cerca di sfruttare il capitalismo per raggiungere i suoi obiettivi di giustizia sociale e di sperimentare strade politiche e legislative nuove per verificarne gli effetti.
Ma soprattutto, come conclude il bel libro di Angelucci e Tarquini, un uomo “che cerca di essere il più coerente possibile con quello che pensa, tutti i giorni dell’anno, tutti gli anni della vita. E che si sente molto felice, tra le tante ragioni, di contribuire a rappresentare umilmente chi non c’è più e dovrebbe esserci. Chi non coltiva la memoria, non sfida il potere”.
In questo mese scade il mandato di Mujica (le elezioni saranno il 26 ottobre). Sicuramente qualcosa di importante e profondo lascerà in eredità, all’Uruguay e al mondo.