(di Andrea Tavella) – Squadre di calcio con migranti e italiani che sfidano il razzismo a colpi di calci al pallone. E’ sempre più diffuso in Italia il fenomeno del calcio “integrato”, esperienze che si muovono in maniera autonoma e dal basso.
Si tratta di realtà sportive che pongono alcuni valori di fondo al proprio agire quotidiano: oltre al rifiuto del razzismo in ogni sua forma c’è anche la volontà di costruire dinamiche di solidarietà concrete sui territori.
Da nord a sud se ne contano diverse: Hic Sunt Leones a Bologna, San Precario a Padova, La Paz a Parma, Liberi Nantes e Atletico Diritti nella capitale, Afronapoli nella città campana, RFC Lions Ska a Caserta, Optì Pobà a Potenza, e così via.
Un fenomeno in evoluzione, con nuove squadre che continuano a nascere di anno in anno.
Se si considerano le enormi lacune del sistema di accoglienza e integrazione italiano, che spesso determina frustrazione nei suoi ospiti, costretti all’immobilismo e alla marginalizzazione nel nulla fisico e sociale, queste esperienze creano ponti fra i migranti e gli autoctoni. È infatti sul micro sociale che il lavoro di queste squadre di calcio solidale rivela tutta la propria potenzialità.
Durante i momenti dell’allenamento e della partita si scardinano luoghi comuni e populismi vari. È infatti necessario un confronto reale e la volontà di remare insieme e dalla stessa parte per raggiungere gli obiettivi comuni propri degli sport di squadra.
Le dinamiche di gruppo sono sicuramente uno degli aspetti su cui i volontari lavorano maggiormente, insistendo sulla necessità del rispetto reciproco e di un’interazione positiva. Spesso, inoltre, trattandosi di ragazzi giovani o giovanissimi, il lavoro dei volontari diventa pedagogicamente rilevante per la loro crescita personale.
Inoltre, spesso queste iniziative vengono realizzate in quartieri di periferia, dove possono contribuire alla riqualificazione di centri sportivi abbandonati. In ogni caso, rappresentano un mix di esperienze e culture che può contribuire ad arricchire il territorio. È lì, infatti, che possono veicolare messaggi e favorire una convivenza serena.

Tra le tante squadre, è attiva a Roma la Liberi Nantes, nel quartiere di Pietralata. Dal 2007 coniuga sport e integrazione. Ne fa parte anche Samuel, venticinquenne rifugiato nigeriano, che ci ha raccontato la sua storia.
Perché hai deciso di venire via dalla Nigeria?
“In Nigeria c’è una situazione politica molto difficile. Io facevo parte di un’associazione che si opponeva al governo e sono stato costretto a cambiare città per evitare serie ripercussioni su di me e sulla mia famiglia. Così mi sono trasferito a sud del paese per iniziare una nuova vita. All’inizio stavamo bene lì. Però c’era un torrente in cui pescavamo avvelenato dagli scarichi della Shell e tanta gente moriva o si ammalava. Ci sono tante multinazionali che inquinano le nostre terre. Ci uccidono tutti lentamente. Abbiamo fatto proteste contro la Shell e altre compagnie. Ma la polizia ci sparava addosso, era pericoloso andare a protestare e la gente veniva arrestata o uccisa. Per questo ho deciso di partire.”
Spesso i media parlano della traversata del Mar Mediterraneo. Raccontaci del tuo viaggio dall’inizio…
“Con la mia famiglia abbiamo deciso di partire verso Agadez, in Niger, per superare il deserto con un camion. Lì organizzano questi viaggi perché è un crocevia tra i Paesi dell’Africa sub sahariana e quelli che si affacciano sul Mediterraneo. È stato un viaggio tragico e tanta gente non ce l’ha fatta. Siamo arrivati in Libia, ma lì non è facile per gli stranieri. C’è un razzismo nemmeno tanto nascosto e non ti fanno lavorare o ti arrestano arbitrariamente. Inoltre la situazione politica non è stabile e tuttora sono in guerra. Abbiamo deciso di ripartire verso l’Europa. Certo anche il viaggio per mare è stato difficilissimo perché la barca su cui stavamo è naufragata. Ci hanno ripescato al largo della Sicilia. Mia figlia si chiama Dignity, dal nome della barca che ci ha salvati”.
Come ti sei avvicinato alla Liberi Nantes e perché credi sia un progetto utile?
“Io giocavo a pallone anche in Nigeria. È una passione che ho sempre avuto. In Italia mi hanno messo in un centro di accoglienza ma non facevo niente tutto il giorno. Senza documenti il lavoro non te lo danno. Inoltre con orari di entrata e uscita, senza sapere la lingua e senza soldi non puoi fare molto. Ero frustrato. Quando ho incontrato i volontari della Liberi Nantes e mi hanno detto di giocare ho accettato subito. Io qui sono felice. Mi sento finalmente libero di fare ciò che mi piace. Ho conosciuto persone con le quali mi confronto e faccio sempre esperienze nuove”.
La Liberi Nantes ha anche progetti paralleli, tu a quale partecipi?
“Sto frequentando la scuola d’italiano della Liberi Nantes. Al centro d’accoglienza ci insegnavano solo buongiorno e buonasera. Inoltre partecipo alle escursioni con Caminantes. Con loro ho visitato sia la città, che prima conoscevo poco, sia i paesaggi intorno. Liberi Nantes è la mia seconda famiglia ormai”.