(di Filippo Bocci) – Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido. / Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato.
(Purg., XI 97-102)
Per essere il mondan romore altro ch’un fiato, quello di Dante Alighieri soffia potente ormai da sette secoli. Ma conosciamo veramente il Sommo Poeta? Qual è il nostro approccio verso un capolavoro come la Commedia? O ci troviamo spesso a ripetere soltanto versi famosi entrati ormai nella memoria collettiva?
Dante è l’icona del genio letterario italiano e su iniziativa del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo è stato deciso di dedicargli da quest’anno la giornata del 25 marzo, data di inizio del suo viaggio nella “selva oscura”.
Poi il 2021 vedrà il culmine dei festeggiamenti proprio per i settecento anni della morte del poeta, ma il 25 marzo resterà per sempre il “Dantedì”.

B-hop ha rivolto alcune domande al professor Giovanni Di Peio, presidente onorario del Comitato di Roma della Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da un gruppo di insigni uomini politici e intellettuali tra cui Giosue Carducci, Ruggiero Bonghi, Ernesto Nathan.
La “Dante” è un’Associazione attiva nella promozione della cultura e dell’arte, e tutela e diffonde la lingua e la cultura italiana nel mondo, dove è presente con quasi cinquecento Comitati.
Il professore, il cui valore segue di pari passo la rara modestia e la cortesia antica dei modi, ci ha restituito una colta, lucidissima dissertazione sull’importanza dell’opera dantesca, che consegna verità e saggezza anche al panorama culturale dei nostri giorni.
Giovanni Di Peio è stato per quarant’anni prima docente, poi preside nei licei statali, coltivando contemporaneamente le ricerche e gli studi storico-letterari, iniziati all’Università “La Sapienza” di Roma sotto la guida di maestri illustri, quali Federico Chabod, Alberto M. Ghisalberti, Natalino Sapegno, Aurelio Roncaglia.
Dopo una lunga militanza nella Società Dante Alighieri, iniziata negli anni ’70, è stato eletto nel 2013 presidente del Comitato di Roma ed ha ricoperto questo incarico fino al 30 settembre 2019.
Di Peio ha all’attivo diverse pubblicazioni tra cui, per la casa editrice Effatà, il volume Teresio Olivelli – Tra storia e santità, un’ampia e documentata biografia di un giovane martire della Resistenza, morto ad Hersbruck, uno dei sottocampi dell’infernale lager di Flossembürg, e proclamato beato il 3 febbraio 2018 e il recente La Società Dante Alighieri. Le origini.
Qui l’autore indaga – “con la grazia felpata di un felino e l’occhio vigile e amorevole di un appassionato interprete”, ha scritto nella prefazione Alessandro Masi, segretario generale della Società – gli albori della “Dante”, che al termine del secolo decimonono sentì immediata l’urgenza di profondere il proprio impegno nella difesa dell’italianità a “Trento e Trieste”, le cosiddette “terre irredente”, ma anche di far sentire la propria vicinanza ai milioni di compatrioti, costretti, alla ricerca di un futuro migliore, a emigrare verso l’Europa o le Americhe.
È l’Italia – ricorda nel libro Di Peio – raccontata da Edmondo De Amicis in Sull’Oceano (1889) e da Giovanni Pascoli nel poemetto Italy (1904), ambedue gli scrittori, peraltro, soci e estimatori della “Dante”.
Professore, perché Dante affascina tanto i suoi lettori? Lei saprà certo dirci che emozioni prova ogni volta che apre una pagina della Commedia.
“Potrei definire Dante un incomparabile compagno di viaggio, perché conosce e ha sperimentato tutti gli itinerari della vita: non per niente la parola “cammino” compare al centro del primo verso della Commedia. Ma, poi, questa definizione trova conferma in situazioni tutte speciali che ci sono state testimoniate da chi le ha vissute. Tra queste ce n’è una indimenticabile: è quella ricostruita da Primo Levi in un capitolo di Se questo è un uomo, intitolato “Il canto di Ulisse”.
Il cammino è quello che, in un giorno di giugno del 1944, l’autore compie insieme con un ventiquattrenne ebreo alsaziano, Jean Samuel, soprannominato Pikolo, ad Auschwitz, precisamente nel campo di lavoro di Monowitz. Egli e Pikolo sono stati incaricati della “corvée quotidiana del rancio” e mentre si stanno dirigendo verso la cucina dove dovranno caricarsi sulle spalle, infilata nelle stanghe di ferro, una marmitta di cinquanta chili con una zuppa di cavoli e rape, da portare ai loro compagni, il giovane gli confida che vorrebbe imparare l’italiano e Primo pensa che sarebbe contento di insegnarglielo.
Ma come, se per quel loro cammino, pur provando ad allungarlo, hanno a disposizione un’ora appena? All’improvviso, senza che Primo stesso se ne renda conto, gli affiora nella mente il ricordo del canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, e quel canto, nonostante i ripetuti vuoti di memoria che costringono il “professore” a fermarsi, diventa il libro di testo per quella straordinaria lezione, che ha restituito miracolosamente all’uno e all’altro, pur dentro l’inferno del campo di sterminio, il senso della libertà e dell’umana dignità.
Altre situazioni si potrebbero ricordare, anche se in contesti meno drammatici, come quella di Jorge Luis Borges che, dovendosi recare al suo posto di lavoro molto lontano da casa sua presso la biblioteca del quartiere di Almagro a Buenos Aires, mentre viaggiava sul tram n. 76 leggeva la Commedia in un testo bilingue, italiano e inglese; un giorno, gli capitò di poter leggere e capire una terzina senza il sussidio dell’inglese: in quel momento, ricorda, “sono arrivato in Paradiso prima ancora di cominciare la lettura della terza Cantica”.
Peraltro lo stesso Borges osserva: “Esiste una prima lettura della Commedia, non ne esiste un’ultima, poiché il poema, una volta scoperto, continua ad accompagnarci sino alla fine. Come la lingua di Shakespeare, come l’algebra o il nostro stesso passato, la Commedia è una città che non riusciremo mai ad esplorare nella sua interezza, la terzina più consunta e ripetuta può, una sera, rivelarmi chi sono io o cos’è l’universo”.
Lei è stato per tanti anni ai vertici della Dante Alighieri: fare e trasmettere cultura è una responsabilità e un motivo di orgoglio e certo anche molto altro. Con quale sentimento prevalente lei ha svolto, e svolge ancora, il suo prezioso compito nelle stanze di questa alta accademia?
“La mia partecipazione alle attività della ‘Dante’ e, in particolare, le responsabilità ricoperte nella presidenza del Comitato di Roma, costituiscono senza dubbio un capitolo particolarmente significativo della mia esistenza, un capitolo distinto ma non separato dal quarantennale impegno come uomo di scuola, prima come docente, poi come preside di licei romani.
Tengo molto a sottolineare l’incrocio di queste due esperienze, perché si sono arricchite a vicenda, consentendomi, da un lato, di trasmettere a generazioni di studenti i valori fondanti della “Dante” e un interesse tutto speciale per il padre della nostra lingua, e, dall’altro, convincendomi sempre di più che il futuro del sodalizio a lui intitolato non può fare a meno del convinto contributo dei giovani.

Questo rapporto con la scuola è del resto nel DNA della “Dante”: si pensi che uno dei primi documenti emanati dal Consiglio Centrale della Società è diretto ai “Maestri di scuola”, con l’invito a far propri gli ideali e i fini della “Dante” e a diffonderli nel loro ambiente e fra i propri alunni (il testo della circolare è riportato in appendice al mio saggio La Società Dante Alighieri. Le origini).”
Prendendo spunto da quanto dice Alessandro Masi nell’introduzione al suo libro sulle origini della Società Dante Alighieri, che cosa può fare ognuno di noi per salvare la cultura e il mondo dalla “desertificazione” e dalla “omologazione”?
“Nel nostro tempo, che approssimativamente potremmo fare iniziare dall’ultimo decennio del secolo scorso, si sono verificati e si stanno verificando cambiamenti epocali (si pensi solo alla loro ricaduta sulla vita quotidiana delle persone, così irrimediabilmente condizionata, pur con i suoi innegabili aspetti positivi, dalla tecnologia informatica), sullo sfondo di alterazioni climatiche che pongono seri interrogativi circa la sopravvivenza della vita nel nostro pianeta e l’individuazione e la messa in opera, in tempi che non possono non essere brevi, dei comportamenti e degli strumenti per tutelarla.
In questo contesto possiamo e dobbiamo chiederci quale sia il ruolo della cultura, ruolo che farei coincidere con il dovere della responsabilità: per fare emergere non solo le falsificazioni tout court alle quali l’uso indiscriminato dei social conferisce una parvenza di verità, ma anche le semplificazioni, i luoghi comuni, le prese di posizione automatiche e irriflesse, quando invece oggi come non mai, la realtà, così strettamente interdipendente nell’orizzonte globale, esige l’intelligenza della complessità, alimentata da un’indagine la più ampia possibile degli aspetti, dei dati che si riferiscono al problema al quale ci stiamo dedicando. L’immagine è quella del prisma”.
Secondo lei, in questo mondo così frenetico, dove tutto invecchia immediatamente a colpi di tweet, è ancora attuale il “metodo” di Ruggiero Bonghi, che poi è quello della “Dante”, della “costanza nel mirare a un alto fine”, perché “le cose buone e forti crescono lente” e “la pazienza educa”?
“Il ‘metodo’ di Ruggiero Bonghi (primo presidente della ‘Dante’, dal 1890 al 1895) rispondeva pienamente alla difficile situazione in cui, soprattutto agli inizi, dovette operare la Società, il cui obiettivo primario era la tutela dell’italianità nelle terre ‘irredente’, in primo luogo Trentino e Venezia Giulia, che però si trovavano sotto la sovranità dell’Impero austro-ungarico, al quale fin dal 1882 il Regno d’Italia, insieme con l’Impero germanico, era legato, in base al patto della Triplice Alleanza.
In tale contesto occorreva una strategia che, rinunciando a ‘tutto e subito’, privilegiasse i tempi lunghi, con l’intento di dare agli ‘italiani’ d’oltre confine un segnale di attenzione e di vicinanza, senza però invadere esplicitamente il campo della politica, perché ciò avrebbe messo in difficoltà il governo italiano. La stessa scelta di dare alla nascente Società il nome di Dante, come suggerito da Carducci, sembrò quanto mai opportuna a Bonghi perché, come si espresse nella seduta del Comitato promotore del 29 marzo 1889, ‘il nome di Dante può dire tutto, senza compromettere nulla’.
Tuttavia il ‘metodo’ di Bonghi può anche essere decontestualizzato, con l’auspicio che quella bellissima affermazione ‘La pazienza educa’, da lui pronunciata a Firenze nel novembre 1893, durante il IV Congresso della Società, faccia riflettere quanti invece ritengono di avere “la verità in tasca” o nel proprio smartphone.”
Scorrendo le pagine del suo libro colpisce lo spirito costruttivo e sinergico dei grandi intellettuali di fine ‘800, Giosue Carducci in testa. Non trova che gli uomini di cultura di oggi siano come rassegnati all’isolamento? Citando Dante diremmo che facciano “parte per sé stessi”, non sempre si intuisce tensione morale, sembra piuttosto che prevalga l’autoreferenzialità. Insomma, lei ha fiducia nel futuro culturale di questo paese?
“Non c’è dubbio che il moltiplicarsi degli strumenti della comunicazione può dare a chiunque l’illusione o la presunzione di avere titolo ad intervenire sugli argomenti più disparati, con la conseguenza che, infastiditi da tanto ciarpame, gli intellettuali, gli studiosi tendono a ritirarsi dal dibattito, facendo così mancare ad un pubblico più vasto il loro contributo spesso dirimente.
Non mancano però personalità di grande spessore culturale che hanno avuto una concezione “democratica” del proprio ruolo, mettendosi così al servizio di una “divulgazione alta”: per esempio, Vittorio Sermonti e le sue letture pubbliche della Commedia hanno avuto il pregio di avvicinare o di riavvicinare al ‘Poema sacro’ un numero elevato di ascoltatori, suscitando in loro il gusto della parola poetica e della sua recitazione, e aprendo altresì la strada ad altre iniziative analoghe (si pensi alla popolarità e al successo delle letture della Commedia, eseguite da Roberto Benigni).
Altrettanto potrebbe dirsi della convergenza verificatasi tra studiosi, attori e semplici amanti della poesia in occasione delle iniziative prese per ricordare nel 2019 i duecento anni dell’Infinito leopardiano.
Il 2019 è stato anche il 130° compleanno della Società Dante Alighieri che lo ha celebrato nel luglio scorso con lo svolgimento del suo 83° Congresso in Argentina (prima a Buenos Aires, poi a Rosario), un paese la cui storia e la cui popolazione sono così profondamente legate al grande fenomeno dell’emigrazione italiana (altro campo del quale la “Dante” si è particolarmente occupata, soprattutto a partire dalla presidenza di Pasquale Villari, succeduto a Bonghi).
Nella seduta inaugurale del Congresso, il presidente della Società, prof. Andrea Riccardi, ha sottolineato la forte attrattiva della lingua italiana, la quarta più studiata nel mondo, oltre che del nostro stile di vita: “L’italsimpatia – ha detto – è gusto, moda, voglia di vivere: qui – senza pretese ideologiche – c’è un umanesimo sotteso e sottile. C’è una proposta umanistica nel vivere da italiani”.
E possiamo citare la classifica stilata dalla rivista The Spectator: nel 2019 l’Italia è in testa fra i paesi più influenti al mondo nel campo della cultura, seguita da Francia, Spagna, Stati Uniti, Regno Unito, Giappone e Brasile (v. Vincenzo Trione, L’Italia prima in cultura: uno stimolo, in “Corriere della sera”, 9 febbraio 2020).
Noi italiani abbiamo, dunque, tutti gli elementi per credere in noi stessi e nel nostro futuro, ma anche per rimboccarci le maniche”.
Lo mio maestro allora in su la gota / destra si volse in dietro e riguardommi; / poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
(Inf., XV 97-99)
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