di Giovanni Di Peio, presidente onorario del Comitato di Roma della Società Dante Alighieri – In Dante, nelle sue esperienze e nelle sue opere, in primis nella Commedia, molti scrittori ed anche molti semplici lettori si sono riconosciuti e tuttora si riconoscono, pur nelle loro diversità di lingua, di cultura, di scelte e/o di condizioni esistenziali: a conferma di quelle che sono le due coordinate fondamentali di ciò che egli ci ha lasciato in eredità, cioè l’universalità e la perenne attualità nelle varie stagioni della storia e delle nostre vite.
Del resto egli, fin dal primo verso della Commedia, dimostra di avere ben presente che l’esperienza che sta per raccontare si iscrive, pur nella sua eccezionalità, in un cammino comune: “la nostra vita”.
Dunque, una Commedia divina, come i posteri l’hanno qualificata, ma anche umanissima.
Lo strumento di tale coinvolgimento è il frequente rivolgersi al lettore (le occorrenze della parola lettor/lettore sono in tutto 16) con il quale Dante condivide i suoi stati d’animo, a partire dallo sconforto provato quando, giunto dinanzi alle porte della Città di Dite, vede più di mille demoni che vorrebbero impedirgli di entrare e Virgilio gli dice di aspettarlo perché andrà a parlamentare con loro: la paura di restare solo è tale che supplica il maestro: «se il passar più oltre c’è negato,/ritroviam l’orme nostre insieme ratto» (Inf., VIII, 101-102). È questo un momento davvero cruciale del suo viaggio di redenzione e Dante non vuole nasconderlo al lettore, perché si renda conto di quante difficoltà questo viaggio è costellato.
Di segno del tutto opposto è l’ultima delle volte in cui Dante si rivolge direttamente al lettore, considerandolo come una sorta di testimone (Par., XXII, 100 e segg.): dopo la reprimenda di San Benedetto nei confronti della corruzione degli ordini monastici, bastò un cenno di Beatrice perché egli salisse dal cielo di Saturno a quello delle Stelle fisse, con un movimento così rapido che mai sulla terra avrebbe potuto essere uguagliato e, parlando al lettore, gli assicura che si ritrovò nel segno dei Gemelli in un istante, più breve di quello che avrebbe impiegato nel mettere il dito nel fuoco e poi allontanarlo.
È a questo punto che egli ci dà informazioni circa il tempo della sua nascita (“quand’io senti’ di prima l’aere tosco”), avvenuta nel mese in cui il sole è congiunto proprio con il segno dei Gemelli, dunque tra il 21 maggio e il 21 giugno, ricevendo dall’influsso di quel segno l’inclinazione allo studio e alle lettere. E ora che si sta avvicinando al momento culminante del suo viaggio, alla sua seconda nascita, gli è stata di nuovo assegnata in sorte la regione dei Gemelli ai quali “divotamente” si rivolge la sua anima «per acquistar virtute/al passo forte che a sé la tira», sicuro com’è che quel momento sarà la prova più difficile per tutte le sue facoltà sensoriali e intellettive, compresa quella espressiva.
Poi, dopo avere ripercorso con lo sguardo le sette sfere celesti, Dante rivolge i suoi occhi “alli occhi belli” di Beatrice, distogliendoli dalla vista della terra, «l’aiuola che ci fa tanto feroci». Questa particella pronominale “ci” è il segnale che Dante, in qualunque circostanza del suo cammino, non dimentica mai quanti lo stanno ascoltando e leggendo, sentendo di essere, pur con lo straordinario privilegio che gli è stato accordato, un essere umano come gli altri, con tutti i limiti che tale condizione comporta, fino addirittura alla ferocia nel contendersi il possesso di questo infinitesimo granello di universo.
Ma la “ferocia” va oltre la contesa del possesso e noi oggi lo stiamo sperimentando, perché la terra, patria comune di tutta l’umanità, è stata sconvolta nei suoi ritmi vitali, è divenuta oggetto di sfruttamento e di violenza; non prenderne coscienza e non decidere subito di passare dall’oltraggio alla protezione potrà portare in breve alla fine di tutto.
Anche di questa convinzione dobbiamo essere grati alla lezione di Dante.
La capacità di Dante di farsi compagno di ogni uomo e di ogni donna che lo abbia incontrato è confermata dall’esperienza di quanti nei momenti più grigi o più bui della loro vita hanno ritrovato nella sua poesia il senso dell’umana dignità.
È questa la testimonianza del grande poeta russo Osip Mandel’štam (1891-1938) il quale, essendo un sorvegliato speciale della polizia sovietica, sapeva di potere essere arrestato in ogni momento, mentre si trovava per strada; perciò, conquistato dalla lettura della Commedia, della quale avvertiva la straordinaria forza e bellezza, portava sempre con sé un’edizione tascabile del poema dantesco, per non restarne privo, quando fosse stato portato in prigione.

Il suo riconoscersi in Dante, come uomo e come poeta, è attestato nell’opera postuma Conversazione su Dante composta nel 1933.