(di Margherita Vetrano) – Vincitore della Palma d’oro a Cannes 2019, Parasite è un film di rilievo nel panorama internazionale.
Kim-Ki-Woo incontra il suo amico d’infanzia Min che gli cede un lavoro come istitutore privato d’inglese per la ricca Park Da-hye. Senza soldi, senza un lavoro e soprattutto senza speranza, accetta e scoprirà un “mondo di opportunità” per lui e per la sua famiglia.
Fedele allo stile coreano, coi suoi 134 minuti di durata ed una trama che oscilla dalla commedia più godibile al gore più efferato, è una denuncia minuziosa della società moderna.
Il regista Bong Joon Ho, anche sceneggiatore e soggettista, non risparmia nessuno. La descrizione del divario sociale tra poveri e ricchi nella Corea del Sud è ben rappresentato dalla villa scultorea in cui vive Da-hye e dall’interrato che Ki-Woo condivide con la sua famiglia…ed una colonia di scarafaggi.
La villa come un entità viva che inghiotte, vomita e condiziona i suoi personaggi. La stamberga come rifugio di animali.
Due ambienti tanto diversi ma rappresentativi dello stato mentale delle persone che li abitano.
Ozio lezioso per i primi ed arte d’arrangiarsi per i secondi che truffano, imbrogliano e mistificano creando una loro realtà in cui ritagliarsi uno spazio.
Interpretano ruoli adatti alle circostanze, plasmandosi sulle esigenze, entrando in scena uno ad uno, in una catena di raccomandazioni che esalta la corruzione del Paese.
La giostra dei parassiti non finisce mai: la famiglia di Kim, la governante prima di loro e la stessa signora Park.
Ogni personaggio dipende e nutre dipendenza da o verso qualcuno; relazione filiale o economica sono mossi da interessi dietro una maschera d’ipocrisia, pur di accaparrarsi un posto migliore nel mondo.
Se i poveri s’ingraziano i ricchi datori di lavoro, al duro prezzo di umiliazioni e diktat, la signora Park compiace il marito per paura di perdere il ruolo di “padrona di casa”.
Un balletto perpetuo in cui la vicenda si sposta lentamente dall’ariosa commedia goliardica ai toni cupi di un thriller con “passaggi segreti” e fantasmi, fino a sfociare in fiumi di sangue e vendette trasversali.
Lo spettatore rimbalza da uno stato d’animo all’altro con naturalezza, fluendo insieme alla pellicola, in uno stato emotivo turbinante che si placa solo, per alcuni attimi, prima della conclusione. Un breve momento di sospensione per poi impennarsi nuovamente verso nuove derive e conclusioni.
Il regista coccola i suoi personaggi come un dio bonario, cercando per essi un continuo riscatto.
Le scelte della padrona di casa, sono quelle di una madre in ricerca di aiuto per i figli. La voglia di credere in una soluzione la spinge a fidarsi di chiunque. Troppo ghiotti il suo portafogli e la sua buona fede per non essere indotta a mantenere un’intera famiglia, assoggettandola a nuove regole e dettami. Paradossalmente la cura funziona, pur basata su menzogne.
Dov’è la verità? Cosa è giusto e cosa no? La vicenda non giudica e non punta il dito ma si cala nella realtà a testimoniare che il relativismo concede un’opportunità a tutti.
Come nell’americano “Magnolia” (1999) la pioggia di rane spezza la storia in due parti distinte, così in “Parasite” un’alluvione potente epura gli animi e le vite dei protagonisti che si fermano a riflettere; l’ambiente influenza le reazioni e se dalla maestosa vetrata della villa la pioggia sembra una benedizione, nel sobborgo fa paura, trascinando con sé ogni cosa, devastando le baracche.
In un mondo di adulti che si riparano dal fortunale, solo il piccolo Da-son si abbandona a madre natura sfidando il diluvio con la sua tenda, in giardino.
“Sai qual è il miglior piano?” chiede Ki-taek al figlio: “Nessun piano, perché non può fallire”, prosegue.
Questa frase abbatte tutte le certezze di una vita programmata e calcolata. La destrutturazione organizzativa cozza con quanto accaduto fino a quel momento e scioglie i vincoli dei personaggi che ricominciano a vivere.
La fine è prossima, secondo una catena di finali che porterà alla libertà dei protagonisti ormai incancreniti in ruoli senza via d’uscita.
Bong Joon-Ho unisce sullo schermo attori di rilievo del cinema coreano come Kang-ho Song (“The foul king”, “Simpathy for Mr. vengeance”, “A Taxi driver”), la bellissima Yeo-jeong Jo (“A perfect match”, “Beautiful world” e “The servant”) e Sun-kyun Lee (“Paju” e “A hard day”), insieme agli emergenti Woo Sik-Choi (“treno per Busan” e “Okja”) e So-dam Park (“The priests” e “One on One”) in un connubio perfetto.
La sua esperienza noir gli permette di realizzare un piccolo capolavoro di forte impatto visivo (la villa dei Parks come un palcoscenico strappato all’arte moderna) ed emotivo.
La scena di ballo sulle note di “In ginocchio da te” è pura poesia.
Imperdibile.
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