Non è vero che siamo usciti dalla recessione, che l’occupazione è aumentata e che la crescita del Pil sarà sicuramente la soluzione alla crisi economica e ai tanti problemi dell’Italia. A sfatare tanti proclami che ogni giorno, a fasi alterne, ci vengono propagandati dai media mainstream (che ovviamente riportano la voce degli interessi politici ed economici che li tengono in vita), è il fondatore del Movimento per la decrescita felice Maurizio Pallante, in una intervista a b-hop in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza” (Edizioni Lindau, 2016). Una lunga chiacchierata che divideremo in due parti, per la gioia dei nostri lettori più affezionati, già molto avvezzi a questi temi e ad una idea di società impegnata nella realizzazione di “un altro mondo possibile”.
E’ ovvio che chi decide, là in alto, fa finta che questo mondo non esista: “Vedere qualcuno uscire dagli schemi consolidati – ricorda Pallante – crea molta preoccupazione perché ha una valenza culturale che rimette in discussione i modelli di comportamento di cui questa società ha bisogno”. Il movimento, ufficializzato nel 2007, con una trentina di circoli territoriali già formati più un’altra trentina che si stanno costituendo, coinvolge oggi un migliaio di persone, sparse in tutta Italia. Si ispira alla decrescita teorizzata da Nicholas Georgescu-Roegen, in linea con il pensiero dell’economista e filosofo francese Serge Latouche. L’assunto di fondo è che non sempre c’è correlazione tra crescita economica e benessere, per cui ad un aumento del Prodotto interno lordo (Pil) spesso si riscontra una diminuzione della qualità della vita.
Siamo davvero usciti dalla fase di recessione?
No, non c’è nessuna crescita. Spiego perché: quest’anno per la prima volta sono stati inseriti nel Pil di tutti i Paesi europei i proventi della prostituzione, della vendita di droga e del contrabbando. Il calcolo presunto di queste tre nuove voci è pari a circa l’1%. Siccome è stato detto che il Pil è in aumento dello 0,5-0,7% in realtà continua a diminuire dello 0,3-0,4%. Non siamo affatto usciti dalla recessione. C’è solo una differenza di calcolo data dall’inserimento nel Pil di queste tre voci. Cosa che nessuno ha fatto notare.**
Nonostante una buona fetta della società, soprattutto i giovani, stia adottando stili di vita improntati alla decrescita, perché questo approccio fatica ad arrivare ai piani alti della politica italiana?
Sì. C’è un totale disinteresse da parte della politica. Sembra che l’unica forma di lavoro possibile sia quella di un rapporto dipendente in un azienda, ricevendo un salario in cambio del proprio tempo di vita. C’è invece un fenomeno molto interessante di ritorno alla campagna, alla produzione biologica, con nuovi contadini che hanno una cultura molto elevata, fanno commercio di prodotti tramite internet.
Infatti capita sempre più spesso di incontrare persone che lasciano impieghi che non soddisfano e inventano strade nuove. O persone senza occupazione che scelgono l’agricoltura o l’artigianato. Una buona parte della società ha quindi già messo in pratica il cambiamento, eppure si fa finta di non vedere. Perché?
Partendo dallo slogan famoso “Un altro mondo è possibile” è chiaro come queste persone un altro mondo lo stiano già realizzando. Vedere qualcuno uscire dagli schemi consolidati crea molta preoccupazione perché ha una valenza culturale che rimette in discussione i modelli di comportamento di cui questa società ha bisogno.
L’obiezione comune è che se non si cresce c’è meno lavoro per tutti. Perché fa così paura l’idea della decrescita, da un punto di vista economico?
Perché si fa confusione tra decrescita e recessione. Le fabbriche stanno chiudendo adesso. Noi siamo in una fase di recessione, che è caratterizzata dalla diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci. Di conseguenza c’è disoccupazione. Se c’è disoccupazione diminuisce la domanda e la produzione deve diminuire ulteriormente. La decrescita invece, è la riduzione selettiva e guidata della produzione di merci che non hanno nessuna utilità. Non sto parlando del superfluo, perché per alcuni una cosa è superflua, per altri è necessaria. Sto parlando di cose oggettivametne inutili, ad esempio il cibo che si butta, ossia il 3% del nostro Pil. Se smettessimo di buttare cibo miglioreremmo la nostra vita perché diminuirebbe la quantità di rifiuti, la parte putrescibile che è la più difficile da gestire. Non avremmo nessun problema e il nostro Pil diminuirebbe del 3%.
Un altro esempio?
Per riscaldare le nostre case consumiamo mediamente 20 litri di gasolio o 20 metri cubi di metano al metro quadrato all’anno. Il massimo consumo consentito in Germania e in Alto Adige è di 7 litri o 7 metri cubi al metro quadrato all’anno, ossia un terzo di ciò che si consuma in Italia. Questo succede perché le nostre case non sono ben coibentate e si disperdono 13 litri su 20, 13 metri cubi su 20, per riscaldarsi. Una casa mal costruita che disperde i due terzi dell’energia fa crescere il Pil più di una casa costruita bene. Detto questo, noi suggeriamo la riduzione selettiva degli sprechi. Bisogna sviluppare occupazione, non ridurla: con una politica finalizzata a ristrutturare il nostro patrimonio edilizio, per fare in modo che le nostre case consumino come le peggiori case tedesche. In questo modo potremmo creare moltissimi posti di lavoro utili. Con una cosa di questo genere riusciremmo a rimettere in moto la produzione, l’occupazione utile senza aggravare i debiti pubblici e l’impatto ambientale, anzi riducendolo e con un risparmio nei costi. La decrescita, come riduzione selettiva e controllata, è un modo per rilanciare produzioni utili riducendo l’impatto ambientale e i costi. Ma è il contrario di quello che succede. La decrescita è l’unica maniera per uscire dalla recessione.
(leggi qui la seconda parte dell’intervista)
** secondo una fonte Istat l’economia sommersa, che in Italia veniva già inserita nel Pil da anni, è invece pari allo 0,6% e il dato dello 0,5-0,7% di aumento del Pil è al netto.